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Ritorno al Futuro: come fare cinema immortale

root • 21 Ottobre 2023

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La carriera da regista di Robert Zemeckis la si può tranquillamente definire quantomeno singhiozzante: l’autore di film tanto belli quanto importanti del calibro di Flight o Chi ha incastrato Roger Rabbit ci ha regalato spesso del puro intrattenimento, poco impegnato e quasi sempre ben diretto. Ma la svolta vera e propria arriva nel 1985, quando nelle sale di tutti gli Stati Uniti d’America esce uno dei film di fantascienza più importanti della sua epoca, giocoso e fresco, Ritorno al Futuro.

In questa giornata dedicata alla trilogia della DeLorean con questa recensione vogliamo rinfrescarvi la memoria sull’effettiva qualità dei tre cult sul viaggio nel tempo: sono veramente così belli come ce li ricordiamo? (Spoiler per l’articolo, si lo sono ancora.)

Un primo, rivoluzionario capitolo

Il primo capitolo della trilogia è indubbiamente il migliore per qualità effettive, ma non quello che in molti ricordano di più: Zemeckis qui costituisce per la prima volta la sua estetica giocherellona e poco scientificamente accurata, riuscendo a catturare i meno avvezzi al genere.

Difatti nell’85 il viaggio nel tempo era stato fin lì poco trattato, finendo per essere relegato a poche trasposizioni cinematografiche: l’accoppiata Zemeckis-Gale però riuscì a scrivere una sceneggiatura tanto interessante, quanto “americana”, con una storia che poteva essere tranquillamente quella di qualunque uomo statunitense, dal giovane adulto all’anziano.

L’incredibile raffinatezza e credibilità della penna dei due autori fu ciò che fece appunto decollare il film: le rocambolesche avventure di Marty (Michael J. Fox) e di Doc (Christopher Lloyd) nonostante come ho già detto siano poco scientifiche, risultano talmente tanto credibili nell’avvenimento che noi spettatori vediamo per tre film una vicenda sempre collegata e coesa da un filo sottile che da un momento all’altro potrebbe spezzarsi. Ma non lo fa, e questa è la prova di come Zemeckis sappia scrivere con classe.

Oltre però a tutta questa patina pop, il primo film nasconde anche una forte critica alla realtà americana di provincia, bigotta e rimasta appunto al passato: il conformismo anni ‘80 che tanto dominava quel decennio era uno specchio degli anni ‘50, guarda caso i due periodi in cui l’autore decide di ambientare il suo film. Ma siamo negli anni ‘80, e quindi la retorica del “farcela da soli” è sempre presente.

Ritorno al futuro, nel futuro

Di diversa caratura è invece il secondo capitolo, molto più giocherellone e forse ancora più cult del primo, quantomeno visivamente. Se nel primo film bisognava tornare al futuro, qui è il futuro il protagonista, un 2015 utopico/distopico, una realtà “pop”, poco affine al reale, e forse anche per questo tanto affascinante. 

La sceneggiatura non ha un momento di respiro: la vicenda è molto frenetica e si passa senza rifiatare per un minuto dal passato al presente e poi ancora al futuro. Marty e Doc devono ora salvare il 2015, dopo che un almanacco con presenti tutte le scommesse dal 1955 al 1985 finisce nelle mani sbagliate. E quindi da un futuro “trumpiano” quasi distopico (ma per certi versi estremamente realistico), il duo deve ritornare a quel 2015 invece poco realistico, ma tremendamente affascinante.

Che sia per lo stile subito riconoscibile o per la sceneggiatura che ho già definito frenetica, questo secondo capitolo è entrato nella collettività come un meteorite, diventando una tessere di riferimento nella storia del cinema: la DeLorean qui è più protagonista che mai, diventando vero motore del cambiamento del mondo dei due protagonisti. Il tempo diventa cruciale, e questo dettaglio che forse mancava un po’ nel primo rende questo suo “sequel” (anche se parlare di sequel è quasi offensivo) quasi perfetto.

Un terzo capitolo forse meno necessario

Il terzo capitolo è invece ricordato dai più come l’anello debole della trilogia, film poco necessario e che non si concentra come deve sul viaggio nel tempo che tanto avera reso celebre Zemeckis: niente di più sbagliato dico io.

Nonostante l’indubbio limite della sceneggiatura, ovvero l’estrema somiglianza con gli altri due capitoli, il regista e Bob Gale riescono a dare il giusto spazio a Doc, capendo che nei capitoli precedenti era stato un mero personaggio secondario, nonostante motore di ogni cosa. Qui Emmett Brown mostra tutte le sue debolezze e tutta la sua umanità, trasformandosi nel far west in una specie di Marty: rompe le leggi che lui stesso aveva stabilito, e si abbandona ad un tempo che non è il suo.

La fine della parabola di Doc è quindi meravigliosa, e il film non è da meno: l’estetica pop lascia spazio ad un’infinità di citazioni al cinema di Leone (Marty userà lo splendido pseudonimo di “Clint Eastwood”, geniale) e a quello western tutto.

Unica nota dolente (ma che è coerente con il periodo in cui è uscito) è l’estremo perbenismo con cui si conclude l’opera: Doc sceglie di rompere le regole da lui create ma nonostante ciò non ha ripercussioni, ripeto coerente con la narrazione imbastita, ma forse meno impattante.

 

Ritorno al Futuro penso sia l’esempio più lampante di film davvero immortali, destinato ad un amore da parte di fan e non intramontabile: Zemeckis rende il cinema qui magico, nonostante di magia non si parli mai. 

VOTI

Regia: 8

Musiche: 8.5

Sceneggiatura: 9.5

VOTO: 9

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