Jonathan Glazer si conferma con questo film personalità eccentrica e indispensabile, capace di utilizzare il mezzo cinematografico a suo piacere, riuscendo a toccare sempre vette inesplorate di racconti già conosciuti e che forse noi come pubblico avevamo pensato finiti. Sexy Beast, Birth, Under the Skin e ora The Zone of Interest: la rilettura dei generi è motore della realizzazione di opere maestose ma sempre decadenti e pessimiste, volte a minimizzare la figura dell'uomo come centro del mondo. La Zona D'interesse è al cinema da oggi, e fidatevi quando dico che non dovete perdervelo.
L'anormalità della normalità
Nel momento in cui si entra in sala si capisce il peso di un'opera come questa, definita da molti "il film del secolo": l'ultima fatica del britannico dimostra che anche storie come quella del nazismo hanno ancora da raccontare, anche in un periodo saturo di qualsivoglia forma narrativa. La parabola nazista in Europa ha lasciato centinaia, se non migliaia, di storie da narrare, e quella della famiglia Höss ne è l'esempio più lampante.
Il comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, e sua moglie Hedwig, cercano di costruire una vita da sogno per la loro famiglia in una casa e un giardino vicino al campo: l'olocausto viene quindi riletto, narrando il punto di vista di uno dei più prolifici aguzzini del nazismo, figura cardine di un sistema malato e ovviamente moralmente sbagliato, il quale si dimostra anche peggio di quanto ci possiamo immaginare. L'indifferenza della famiglia Höss è il focus delle diece teste remotate (camere che il regista ha utilizzato nel film, ma ne parleremo dopo), ed è inquietante pensare come i personaggi si muovano nella più totale freddezza.
Gli Höss fingono la non esistenza delle urla e degli spari e si stizziscono quando qualcuno di esterno non riesce ad adattarsi alla loro vita anormale e menzognera: le bugie della madre sono il giardino, la serra, la piscina, la bella sala da pranzo; le bugie del padre sono le gite in barca, le passeggiate col cavallo, la riuscita ottimale del lavoro (terrificante se ci si pensa). I traguardi di questa pseudo utopica famiglia sono costruiti letteralmente su cenere, e ben presto l'idillio termina, e come piaghe bibliche diversi avvenimenti contrastano la buon riuscita dell'utopia che appunto rimarrà tale.
Per chi conserva un po' di umanità tutto ciò sarà inquietante e insopportabile, e noi spettatori come la madre di Hedwig siamo chiamati ad allontanarci dall'indifferenza per abbracciare l'azione benefica e umana. Scegliendo il punto di vista dei carnefici Glazer ci ricorda come certe dinamiche non sono cambiate, ed ancora oggi i governi continuano impassibili i loro interessi di fronte alle guerre. Il film un po' ci vuole dire questo, il resto dovete leggercelo voi.
Il campo in fuori campo
Importante il lavoro di scrittura dell'inglese, il quale utilizza ogni frame a sua disposizione per consegnarci il suo messaggio, terribile e disilluso: dai titoli di testa sino ai titoli di coda un suono mortifero di sottofondo ma allo stesso tempo assordante ci perseguita, ed è il vero protagonista di una narrazione, soprattutto visiva, di sottrazione che lavora sul fuori campo e sul secondo piano. Dove l'occhio non arriva, l'orecchio è chiamato al lavoro, e da aspirante sound designer quale solo non posso che complimentarmi col lavoro del team tutto, lungimirante nel capire che il cinema non è solo vista.
Nonostante ciò, fotografia e scelta delle inquadrature sono centrate nel voler consegnarci un messaggio come quello sopra citato: la luce del sole bacia le mura della casa e del campo, mai veramente inquadrato; difatti noi delle strutture di Auschwitz non vediamo nulla se non i tetti e i comignoli che sputano fiamme e fumo, e la fotografia fatta di solo luce naturale è maestosa e magnifica nel mostrare ciò che il regista sceglie.
Il rifiuto dell'immagine scelto da Glazer è mirato ad uno scopo ben preciso: non far vedere veramente nulla è una dichiarazione d'intenti potente e anche anarchica, perchè si lascia completamene nelle mani dello spettatore la lettura e la reazione emotiva di ogni secondo di racconto; troppo semplice essere portati mano nella mano dal regista sino alla conclusione, qui siamo chiamati ad un ragionamento attivo non da poco.
Quindi così il campo e il fuori campo riprendono dignità in un cinema che dà sempre meno importanza ai dettagli e che relega alcune aree della narrazione (come il suono appunto) a mero lavoretto per far sentire il pubblico. Glazer è un regista importante e necessario, impossibile dire il contrario.
Il lavoro sugli attori
Imprescindibile parlare di come Jonathan Glazer abbia lavorato con la sua squadra di attori in quest'atipica opera cinematografica: come già citato in precedenza il film è girato in multicam per diverse occasioni, ovvero con circa dieci camere remotate installate all'interno della casa dei sogni degli Hoss: questa scelta è di nuovo una presa di posizione non indifferente.
Allontanando così l'azione del regista, gli attori sono lasciati liberi di muoversi e svolgere semplici azioni, come giocare, cucinare, prendere un caffè, insomma, sono lasciati alla vita normale di tutti i giorni. Avvicinare una camera con tutto il suo ingombro avrebbe sicuramente cambiato questa alchimia che si è venuta a creare e che alla fine vediamo a schermo: Glazer inquadra i suoi personaggi da lontano poichè interessato alle loro azioni, e non alla loro psicologia, ma ovviamente alla fine della visione le azioni di questi ultimi delineano una psicologia ben precisa. Quindi missione perfettamente riuscita.
Conclusioni
The Zone of Interest utilizza tutto ciò che nel cinema di oggi sta scomparendo per narrare una storia atipica di un argomento usato ed abusato: l'indifferenza della famiglia Hoss deve essere d'esempio per come non vivere e per come non approcciarsi alla disumanità più terrificante. Partendo dalla fotografia arrivando sino alla direzione attoriale, il britannico si distanzia moltissimo dalle tecniche comuni di realizzazione cinematografica, portando in sala un lavoro particolare, maginifico e dannatamente attuale e fondamentale. Non è un film da perdere, andate al cinema ora che potete.
Come con Past Lives vi lascio con uno stralcio di intervista, questa volta del regista: "Bisogna parlarne. Deve essere riaffermato, la prova dell'esistenza di Auschwitz è essenziale. C’è negazionismo nel mondo, c'è revisionismo. Quel che volevo fare era provare a creare qualcosa in cui ci saremmo messi e ci saremmo rivisti nell'autore del reato. Chiamare mostri queste persone significa non imparare nulla, chiamarli umani è davvero spaventoso."
REGIA: 10
FOTOGRAFIA: 9.5
SUONO: 10
SCRITTURA: 10
PROVE ATTORIALI: 9
VOTO: 10