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Cultura Gaming

Una Breve Indagine Sulla Storia dei Videogiochi (Fino Agli Anni 90)

Valentina Marinelli • 7 Giugno 2024

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È il 1983, in radio viene passata “Every Breath You Take” dei Police, al cinema esce il terzo e ultimo capitolo della trilogia originale di Star Wars “Il ritorno dello Jedi”, Apple lancia il primo e iconico Macintosh e, infine, assistiamo alla nascita di quello che un giorno sarebbe diventato Internet. Sono anni d’oro, dove i canali di intrattenimento e la tecnologia fanno dei passi da gigante.

Ora, immaginate questo periodo come se fosse una grande festa nella quale la musica, il cinema, l’arte e la tecnologia vengono invitati. Tutti si divertono e ballano con in sottofondo la disco dance godendosi il momento, eccetto qualcuno che siede rannicchiato su sé stesso nell’angolo della stanza: l’industria videoludica. Chiaramente non si diverte, d'altronde la sua vita è stata irrimediabilmente rovinata e, in questo momento, il suo unico pensiero è quello di sparire per sempre seppellendo i suoi ultimi resti in una discarica desertica in New Mexico (spoiler). Finché, dopo due anni di agonia, un uomo baffuto alto ben 16 pixel con il suo cappello rosso e la tuta da idraulico gli tese la mano e gli salvò la vita.
Nintendo salva l’industria videoludica.

Prima di spiegare come il settore dei videogiochi sia finito sul baratro dopo un periodo di estrema crescita è importante capirne l’origine, e soprattutto come il mercato e la concezione che si ha sui videogiochi sono cambiati nel corso del tempo. 

Anni 40-50

Raccontare la storia dei videogiochi, soprattutto nei primi anni, è complesso, perché le informazioni a riguardo sono frammentarie e poco approfondite. Siamo nel secondo dopoguerra e la tecnologia disponibile appartiene principalmente alle forze militari che hanno investito denaro e tempo per poter avere l’armamentario migliore durante il secondo conflitto mondiale. Tuttavia, una volta terminata la guerra, le varie macchine non sono state dismesse, bensì vengono donate agli enti di ricerca, banalmente le università. È per questo che i primi videogiochi vengono realizzati in ambito accademico, soprattutto per testare quelli che sono stati gli studi sull’interazione uomo-macchina.

In effetti, inizialmente, non si puntava all’intrattenimento e chiaramente non si ritrovano quelle componenti di game design che possiamo apprezzare al giorno d’oggi. È bene notare che all’epoca non esistevano i personal computer e molti dei titoli prodotti fino agli anni 70 sono andati perduti. Questa, tuttavia, è anche una conseguenza della scarsa capacità computazionale delle macchine dell’epoca e i computer, così come li conosciamo noi, non erano ancora stati prodotti. Di fatto, nei primi anni di sviluppo non si utilizzava nemmeno uno schermo! 

Bertie The Brain

È il caso di “Bertie The Brain”, pubblicato dall’ingegnere Josef Kates nel 1950, che altro non è che il nostro tris. Questo non si avvaleva di uno schermo per mostrare le mosse dei giocatori ma di lampadine che, a seconda della mossa scelta dal giocatore umano, si sarebbero accese. Forse trovate strano il fatto di aver specificato “giocatore umano” ma dovete sapere che è proprio in quegli anni che inizia a svilupparsi l’intelligenza artificiale; in Bertie The Brain l’avversario era la macchina stessa! Certo, una AI molto acerba e sicuramente differente da quella odierna, ma per l’epoca era all’avanguardia, poiché non era statica e quindi poteva essere cambiata per aumentare o diminuire la difficoltà del gioco.

OXO

In realtà, sebbene Bertie The Brain sia un gioco elettronico a tutti gli effetti, per avere il primo e proprio videogioco (così come viene inteso oggi) dobbiamo aspettare altri due anni: è nel 1952 che, presso l’Università di Cambridge, Alexander S. Douglas sviluppa OXO, un’altra versione del Tris, utilizzando uno schermo a tubo catodico e il computer EDSAC, ovvero un dispositivo grande quanto un armadio e con una potenza infima se paragonata ai computer odierni. La peculiarità di OXO risiede nel controller che è un disco telefonico, in pratica uno di quei telefoni fissi grigi che i nostri nonni probabilmente possiedono ancora accuratamente appoggiato su un centrino bianco, attraverso il quale il giocatore seleziona una cifra (da 1 a 9) che corrisponde alla casella della scacchiera di gioco scelta per eseguire la mossa.

Tennis for Two

Passano ben 6 anni quando il fisico William Higinbotham sviluppa il nonno di “Pong” (Atari, 1972), ovvero “Tennis For Two”, che possiamo considerare come il primo gioco multiplayer. Questo è un gioco molto particolare per due motivi: utilizza un oscilloscopio come interfaccia grafica e viene introdotta, per la prima volta, la fisica! In effetti, la traiettoria del lancio è affetta dalla forza di gravità e, di conseguenza, il giocatore deve ponderare accuratamente la forza di esso. 

Probabilmente è proprio con “Tennis for Two” che i videogiochi passano dall’essere degli esperimenti finalizzati alla ricerca all’essere una nuova forma di intrattenimento; infatti, Higinbotham lo sviluppò con l'intento di divertire i visitatori del Brookhaven National Laboratory, probabilmente non conscio di quello che un giorno i videogiochi sarebbero diventati. 

Anni 60

Spacewar!

In questi anni di particolare fermento tra Beatlemania, le rivoluzioni del 68’ e la missione Apollo 11 il mondo videoludico comincia ad espandersi. Nel 1962 viene creato, dalle menti di un gruppo di studenti del MIT, “Spacewar!”, ovvero una sorta di "Space Invaders” (Taito, 1978) 1vs1. Nonostante esso non possedesse una AI e le modalità di input non fossero ottimali (solo in seguito è stato creato un joystick), rientra nella lista dei videogiochi più importanti della storia perché è grazie a questo titolo che verranno creati i primi giochi arcade.

Ma di questo ne parleremo dopo, sappiate solo che Spacewar! detiene anche il primato di essere il primo gioco ad essere distribuito in grande scala, in quanto verrà incluso nei nuovi computer DEC e il suo codice open-source permetteva il porting anche su sistemi diversi. In questo modo, la maggior parte delle persone sarebbero state in grado di fruire di questo nuovo sistema di intrattenimento, se avessero avuto la possibilità di spendere 120.000$, ovvero 1.050.000$ odierni. 

Il costo del gaming e la Brown Box

Forse avrete già capito qual è il problema dei videogiochi a questo punto: non sono accessibili. A meno che non si lavorasse all’interno di uno studio di ricerca, per le persone comuni risultava complesso avvicinarsi a questa tecnologia e, se non si fosse trovato un modo per rendere disponibile al grande pubblico un modo per approcciarsi a questa dimensione ludica, probabilmente non staremmo nemmeno qui a parlarne.  

Ralph Baer, un ingegnere tedesco, probabilmente si pose il problema e pensò: “Quale elettrodomestico è già abbastanza diffuso per poterlo utilizzare come supporto per il mio gioco? Ma certo, il televisore!”.

In realtà, l’ingegnere ebbe questa intuizione già dieci anni prima quando i televisori iniziarono ad essere sempre più presenti nelle case delle persone. Nonostante la sua idea venne rifiutata, lui non smise mai di crederci. 

Come abbiamo detto, le prime tecnologie erano prettamente militari e inserire all’interno di un mezzo trasmissivo così potente un “giocattolo” probabilmente non era proprio ideale e, infatti, in un’intervista egli afferma: “Quello che volevo fare non c’entrava nulla. Come evitare che la Sanders (azienda nella quale lavorava) lo rifiutasse subito? A questo scopo, ho provato a far suonare ciò che stavo descrivendo come se c’entrasse qualcosa con ciò a cui stavo lavorando all’epoca. Prima di tutto, non ho mai usato la parola ‘giocattolo’. Però potevo invece parlare di ‘gaming’: questo era infatti un termine che nell’esercito veniva regolarmente usato e poteva quindi far sembrare che il mio progetto fosse nell’ambito dell’azienda”.

Ed è così che, la Sanders, iniziando a finanziare il dipartimento di ricerca e sviluppo dei “TV Games”, permise all’ingegnere Baer di sviluppare quello che potremmo considera la prima console: la Brown Box, ovvero il prototipo della Magnavox Odyssey, la prima console casalinga.

Anni 70 

A partire dagli anni 70, l’industria videoludica inizia a svilupparsi su due fronti: i giochi arcade e le console casalinghe. 

Galaxy Game e Computer Space

Nei primi anni del decennio, viene prodotto “Galaxy Game”, il primo gioco arcade della storia. Esso è basato sul già sopracitato Spacewar! ed era possibile giocarci solo inserendo una moneta da dieci centesimi.

Due mesi dopo, grazie allo sviluppo di due ingegneri, uscirà un altro titolo arcade ispirato al gioco del 1962, “Computer Space”, il quale presenta le stesse meccaniche di Galaxy Game ma, a differenza di quest’ultimo, vince il titolo di primo videogioco commerciale in quanto la sua diffusione, negli USA, ammontava a circa 1500 esemplari. Tuttavia, Computer Space non ebbe il successo sperato e la causa, secondo uno dei due creatori, è attribuibile ad un gameplay troppo complesso per un’audience che era in grado solo di girare la manovella per cambiare canale del televisore.

Come egli disse: “Nessuno è disposto a leggere un'enciclopedia per imparare le regole di un gioco” e di questo ne fece tesoro perché è solo grazie a questo fallimento che verrà prodotto il ben più famoso PONG. Perché proprio PONG? È semplice, i due ingegneri dietro Computer Space altri non erano che Nolan Bushnell e Ted Dabney, ovvero i fondatori di Atari, la società di produzione videoludica più rilevante di quegli anni.

Arrivati a questo punto, devo necessariamente introdurvi una nuova nomenclatura: da questo momento in poi, non parleremo solo di anni specifici ma anche di generazioni, le quali ci permettono di raggruppare una serie di console che condividono il design e l’architettura hardware.

Prima generazione delle console

Ralph Baer, di cui abbiamo già parlato, vendette la sua Brown Box alla Magnavox (azienda di elettronica dell’epoca), la quale nel 1972 mise in commercio la Magnavox Odyssey, la prima console casalinga della storia e quella che dà il via alla prima generazione. Essa era costituita da un corpo centrale alla quale erano collegati due controller e, poiché la schermata di gioco era in bianco e nero, la Magnavox produsse delle plastiche colorate da poter applicare allo schermo del televisore per creare un’immagine a colori. Inoltre, per rendere più immersiva l’esperienza di gioco, fu creata una pistola ottica da poter utilizzare in uno dei 12 giochi in dotazione.

Purtroppo, anche in questo caso, la console non si posizionò al meglio sul mercato a causa di una promozione scadente, scarsa reperibilità (veniva venduta solo nei negozi Magnavox) e persino false credenze! Si pensava, infatti, che questa console funzionasse solo sui televisori del brand e, proprio per questo, negli anni successivi, le altre aziende per tutelarsi hanno iniziato a specificare chiaramente sul packaging che le loro console erano in grado di funzionare su qualsiasi televisore, che esso sia in bianco e nero o a colori.

Nasce Atari

Nello stesso anno di uscita della Magnavox Odyssey, nasce Atari, la prima azienda ad avere il successo che tutti speravano di ottenere. Bushnell, scottato dall’esperienza con Computer Space, decise di semplificare l’esperienza di gioco affinché tutti potessero avvicinarsi al gaming. Così, il 29 novembre 1972 viene rilasciata la versione arcade di PONG e il 1975 viene rilasciata la sua versione casalinga. Fu un successo e Atari riuscì a vendere 19.000 cabinati. 
Inizia così l’età d’oro degli arcade.

Golden Age dei giochi Arcade

I giochi arcade iniziano ad espandersi sempre di più ed è in questo periodo che l’appuntamento con il fidanzatino passa dall’essere una passeggiata romantica per le vie del centro al ritrovo, con i suoi amici, in queste sale enormi, pieni di cabinati, scritte al neon e un tanfo inimmaginabile che potremmo riconoscere come sale giochi. 

Ma perché questi giochi diventano così popolari? 
Uno dei motivi l’abbiamo già affrontato: possedere una console era costoso, pensate che la Odyssey aveva un costo di 100$, circa 662$ attuali, e non tutti avevano la possibilità di fare un acquisto del genere considerando anche che all’epoca i videogiochi erano così poco diffusi che gli appassionati del settore erano pochissimi. 

Al contrario, giocare in una sala giochi era molto più economico e sicuramente era molto più soddisfacente vantarsi con i propri amici di una run ben eseguita piuttosto che farlo con i propri genitori. Non solo, i programmatori dovevano fare i conti con un hardware non potente abbastanza da poter eseguire giochi con grafiche più avanzate o sviluppare meccaniche di gioco più complesse. Se da un lato questo poteva reprimere la creatività del gruppo di sviluppo, dall’altro lato i giochi prodotti erano molto semplici e quindi chiunque era in grado di giocarci, dai bambini fino alle persone più adulte.

Sebbene PONG abbia dato il via a questo nuovo modo di giocare, in realtà, l’apice del successo dei giochi arcade è attribuibile a Space Invaders, prodotto dalla Taito nel 1978, il quale rafforza ancora di più il genere preferito dai videogiocatori: lo sparatutto. Per questo, nel corso degli anni, diversi giochi hanno copiato il suo gameplay, tant’è che viene definito il primo “videogioco blockbuster” ma il suo design e la sua estetica rimane tuttora iconica e altamente riconoscibile.

Nel corso degli anni, fino ai primi anni 80, si sono susseguiti una serie di giochi che ancora oggi ricordiamo e amiamo, tra cui i più famosi Pac-Man e Donkey Kong.

Tuttavia, come ogni cosa bella nella vita, la golden age dei giochi arcade finisce verso la metà degli anni 80, in concomitanza con un altro evento di cui parleremo dopo. Questo non significa che spariscono totalmente, infatti “Street Fighter” della Capcom viene pubblicato proprio alla fine di questo decennio. Quello che cambia sono le abitudini delle persone e un mercato più improntato verso le console casalinghe e i nuovissimi personal computer.

Seconda Generazione delle console

La seconda generazione inizia nel 1976 con il rilascio sul mercato del Fairchild Channel F, seguita l’anno successivo dalla più famosa Atari 2600. Il mercato, quindi, inizia a popolarsi sempre di più e le persone possono scegliere tra ben 15 console, tra cui, ad esempio, quella della Mattel, la famosa fabbrica di giocattoli e mamma di Barbie. 

La novità di questa generazione risiede nell’utilizzo delle cartucce. Furono introdotte dalla Channel F e diventarono uno standard per i successivi 15 anni, tant’è che Nintendo le utilizzò fino all’inizio degli anni 2000. Sebbene adesso siano superate e magari le vediamo solamente come un oggetto vintage da collezione, per l’epoca era pura innovazione perché permettevano di programmare l’intero gioco in un singolo pezzo di plastica, anziché programmare un’intera console solo per una manciata di giochi. 

Se questo passo in avanti permetteva alle persone di accedere ad un parco titoli molto più ampio e variegato, accontentando il gusto di chiunque, e di divertirsi in compagnia nel comfort della propria casa, allo stesso tempo questo diventa il primo passo verso la catastrofe.

È l’inizio della fine.

Anni 80 - La nascita degli home computer, la crisi dei videogiochi, terza generazione delle console

I primi due anni degli anni 80 rappresentano il picco massimo di diffusione dei videogiochi e le console iniziano ad entrare prepotentemente nelle case delle persone.  Il mercato inizia a crescere a dismisura e vengono prodotti centinaia e centinaia di giochi, forse, vedendolo con occhi odierni, anche troppi. Ma una cosa è certa: tutti volevano guadagnare il più possibile, a tutti i costi. 

E come si fa il soldo facile in un campo relativamente nuovo? Proprio perché in quegli anni i giochi arcade erano i più diffusi e amati, le varie aziende, oltre a produrre giochi inediti, cominciarono a riproporre gli stessi giochi che si potevano trovare nelle sale giochi. È ovvio, non devi assumere game designer perché il gioco è già bello che confezionato e bisogna solamente effettuare il porting. Minimo sforzo, “massima resa”. Già, perché la qualità spesso era scadente per svariati motivi: ai programmatori era concesso un periodo di tempo limitato per lo sviluppo e dovevano far fronte alle limitazioni tecniche delle console casalinghe in quanto la potenza computazionale di una piccola macchina era minore rispetto a quella di un cabinato. 

Tra le varie aziende del momento, Atari possedeva i titoli più amati e, grazie a ciò, si affermò come la casa di produzione e di sviluppo più potente sul mercato. D’altronde, per la sua console di punta, l’Atari 2600, vennero prodotti più di 550 giochi e l’azienda riuscì a vendere più di 120 milioni di cartucce al prezzo medio di 23$, circa 77$ odierni. 

Il successo di Atari e le tensioni interne

L'obiettivo, quindi, era quello di vendere il più possibile a discapito della qualità e del benessere dei lavoratori, e Atari lo sa molto bene. 

Se all’esterno si mostrava come la regina delle console in tutto il suo splendore, ai suoi piedi, lontano da occhi esterni, iniziava ad aprirsi una voragine. In quegli anni venne comprata dalla Warner Communications per 28 milioni di dollari e, poiché Atari rappresentava l’80% del mercato videoludico, nel 1982 era la divisione che generava quasi il 70% degli introiti della Warner stessa.

Se le condizioni dei programmatori erano già critiche, da quel punto in poi peggiorarono ancora di più. Tra stipendi non pagati e lo stress continuo, iniziarono a crearsi delle spaccature: se Warner non li avesse riconosciuti allo stesso livello dei loro colleghi del mondo dello spettacolo e della musica, allora sarebbero andati via. E per quattro di loro così fu, lasciarono Atari e fondarono la loro casa di sviluppo: la Activision.
Ma non solo Atari, anche altre aziende non rispettavano il lavoro dei propri dipendenti: ad esempio la Mattel non inseriva nemmeno i nomi dei programmatori nei crediti finali dei loro giochi.

Forse voi vi chiederete se fecero qualcosa per aumentare la qualità del prodotto: assolutamente no, perché tanto le persone avrebbero comprato i giochi in qualsiasi caso. All’epoca, le riviste dedicate ai videogiochi non esistevano, quindi per valutare un gioco dovevi necessariamente comprarlo senza avere la possibilità di leggere una recensione. Inoltre, per poter vendere ancora di più, sia Atari che le aziende concorrenti, cominciarono a sviluppare giochi basati sui film del momento, quindi sotto licenza. Non so, vi ricorda qualcosa? Una cartuccia in particolare? 

La genesi della crisi

Recessione economica

Se il mercato videoludico inizia ad arricchirsi sempre di più, in tutti i sensi, non si può dire lo stesso per gli USA. Il popolo americano non può permettersi una spesa così grossa per un semplice passatempo visto che in quel periodo l’America si ritrovava in una profonda crisi economica dovuta alla crisi petrolifera del ‘79 a sua volta in seguito della rivoluzione iraniana. Crisi economica che raggiunse il suo picco proprio nel 1982, quando le aziende videoludiche spinsero l’acceleratore fino in fondo. 

La nascita e diffusione degli home computer

Sebbene la recessione economica avesse giocato un ruolo importante nella crisi dei videogiochi, un altro colpo fu inflitto dalla nascita degli home computer. Se prima i computer erano relegati solo all’uso accademico e militare, con l’avanzare della tecnologia e la diminuzione delle dimensioni, riuscirono a conquistare anche il grande pubblico. 

Anche se il costo poteva sembrare alto, in realtà, era coerente con le funzionalità che offriva: più memoria, grafica migliore e persino la possibilità di ascoltare i suoni. In più, non solo si aveva la possibilità di giocare ma anche di lavorare, programmare, scrivere etc... Inoltre, i giochi potevano essere copiati in maniera più semplice perché non si trovavano sulle cartucce ma sulle cassette o, in seguito, sui floppy. Nonostante il primo home computer di successo sia stato l’Apple II (1977), il successo in campo videoludico avviene con il Commodore VIC-20 (1980), seguito dal più famoso e iconico Commodore 64 (1982). Ed è proprio la Commodore a vincere in quegli anni, sbaragliando la concorrenza composta persino dalla stessa Atari. Inoltre, la società specializzata in informatica riuscì a farsi molta pubblicità comparandosi alle console presenti sul mercato e offrendo la possibilità di permutarle per poter comprare i loro computer. 

Con l’avvento dei computer nascono anche nuovi generi, come le avventure grafiche (“Zork”), i simulatori di guida (“Pole Position”) e sparatutto in prima persona (“3D Monster Maze”).

Il crash

Siamo nel 1982 e la situazione è più che drammatica. Le persone iniziarono ad accorgersi della scarsa qualità dei prodotti e, di conseguenza, smisero di acquistare. Questo portò le varie catene di distribuzione a restituire le cartucce invendute e, ovviamente, le varie aziende erano costrette a rimborsare perdendo un’ingente quantità di denaro. Per ovviare a questo problema, i rivenditori cominciarono ad applicare forti sconti sui giochi per passare da un prezzo medio di 35$ (100$ odierni) a 5 dollari (circa 15$) nella speranza di poter vendere di più. A questo punto, molte delle aziende protagoniste di quegli anni abbandonarono la scena: Mattel, Magnavox e Coleco smisero di produrre console. 

E la regina delle console? In quel momento iniziava a scavarsi la fossa in New Mexico.

Come Atari fallì

Arriviamo finalmente al cuore dell’avvenimento menzionato nell’introduzione, perché la vera protagonista della crisi videoludica è l’Atari stessa.

Oltre a Space Invaders, Atari decise di acquistare la licenza di un altro gioco molto in voga nelle sale giochi, Pac-Man (1980, Namco), sicura di riuscire a vendere un numero elevato di copie. Per questo ebbe la brillante idea di produrre 12 milioni di cartucce a fronte di sole 10 milioni di console vendute. Perché questa scelta? Speravano che le persone, spinte dall’esperienza positiva nella sala giochi, avrebbero comprato sia la console che la cartuccia. Sebbene Pac-Man sia stato il gioco più venduto per l’Atari 2600, riuscì a vendere solo 7 milioni di copie lasciando Atari con 5 milioni di copie nel magazzino. Per di più, la qualità del titolo non era paragonabile a quella del cabinato e, visto che il pubblico cominciava a capire cosa fosse fatto bene e cosa no, molti acquirenti furono costretti a riportare indietro le cartucce perché considerate ingiocabili.

E.T l’extraterrestre

A questo punto, viene da sé chiedersi se l’Atari avesse imparato la lezione, se avesse capito finalmente la direzione che stava prendendo il mercato e quello che i consumatori si aspettavano dai giochi. La risposta è no, anzi, la sua prossima e ultima mossa si dimostrò catastrofica, nonostante le premesse fossero decisamente migliori.

Nel giugno del 1982 uscì nelle sale americane una pellicola che entrò in pochissimo tempo nella lista dei film cult: parliamo di E.T. L’extraterrestre, diretto da Spielberg. Atari non si sarebbe mai lasciata sfuggire questa grandissima opportunità; quindi, il CEO della Warner Steve Ross riuscì a ottenerla per circa 25 milioni di dollari, i quali oggi assumono un valore d’acquisto di circa 79 milioni. Per l’occasione riuscirono persino a reclutare il game designer Howard Scott Warshaw, il quale aveva già lavorato con Spielberg per l’adattamento de “I predatori dell’arca perduta”.  Inoltre, Atari era intenzionata a vendere il gioco sotto il periodo di Natale, nella speranza di riuscire a vendere non solo le cartucce ma, come per Pac-Man, anche il bundle.

Il successo sembrava assicurato ma forse Atari non solo giocò col fuoco, anzi infilò tutta la mano nel fuoco ardente. Perché andò tutto storto?

Considerate che le varie trattative terminarono alla fine del luglio dello stesso anno e, poiché doveva necessariamente uscire nel periodo natalizio, a Warshaw furono date solo cinque settimane per progettare, programmare e testare il gioco.

Sebbene E.T fu un successo sotto il periodo natalizio, rientrando nella top 10 dei giochi più venduti per Atari 2600, le cartucce vendute furono solamente 1,5 milioni e per diversi motivi: il gioco era così brutto che entrò di diritto nella lista dei giochi peggiori mai prodotti e, di conseguenza, circa 1 milione di copie furono portate indietro. Inoltre, in quel periodo, i consumatori più giovani preferirono un altro titolo come regalo di Natale, Pitfall dell’Activision, la casa di sviluppo che Atari aveva cercato di fermare sin dalla sua nascita portandola diverse volte in tribunale.

Il funerale

E così, nel 1983, Atari perse 536 milioni di dollari (circa un miliardo e mezzo oggi) segnando la fine della sua dominazione: Atari fallì.

Cosa fai per onorare la morte di qualcuno? Si celebra il suo funerale.

Nel settembre del 1983 iniziò a circolare una notizia alquanto bizzarra: secondo il giornale locale di Alamogordo in New Mexico, erano stati avvistati circa una quindicina di camion con all’interno centinaia e centinaia di prodotti Atari. In un primo momento l’azienda comunicò che voleva solo sbarazzarsi dei giochi della 2600 poiché l’anno prima era stata lanciata sul mercato la loro nuova console, l’Atari 5200. Secondo fonti interne, era una bugia; quindi, il referente ufficiale di Atari cambiò versione affermando che in realtà stavano buttando solamente quelle cartucce che non potevano essere riparate. Quello che doveva essere un funerale privato divenne pubblico.

Infatti, il New York Times iniziò ad indagare sull’evento per capire cosa stesse succedendo ma Atari dovette dire la verità (più o meno): lo stabilimento di El Paso doveva chiudere e quindi dovevano sbarazzarsi di tutto il materiale, ma, furbamente, omisero che in questo modo avrebbero beneficiato degli sgravi fiscali. Sebbene non fosse mai stato specificato, alcune persone addette al lavoro affermarono con certezza che le cartucce demolite erano quelle di E.T. e Pac-Man.

Arrivò il momento di chiudere la bara. Il 29 settembre fu versato del calcestruzzo in modo tale che la tomba di Atari non potesse essere deturpata. L’anno seguente arrivò il certificato di morte: Atari è stata venduta.

La leggenda metropolitana

Sebbene la fine dell’azienda più famosa dell’epoca fosse accertata, non si può dire lo stesso della sepoltura dei suoi giochi.

Le informazioni contrastanti portarono molte persone a dubitare della veridicità. Questo perché non sono mai state prodotte prove tangibili che attestano l’effettiva sepoltura; ci si affidava alla testimonianza delle persone del posto, di chi ha lavorato e di un’unica foto di bassa qualità che non permetteva di capire effettivamente cosa stesse succedendo. Tant’è che Warshaw, il game designer che curò E.T, faceva fatica a crederci in quanto, secondo lui, sarebbe stata una mossa stupida da parte di Atari che già si trovava in una situazione finanziaria drammatica e che, per recuperare una parte dei soldi persi, avrebbero potuto riciclare le componenti all’interno delle cartucce. Al contrario, John Willis, giornalista del Pacific Historical Review, ipotizza una spiegazione fantascientifica, affermando che le persone si trovassero sotto l’effetto di un’allucinazione collettiva dovuta ai test nucleari Trinity e l’incidente di Roswell (schianto di un possibile ufo).

Il ritrovamento

Ad un certo punto il corpo di Atari venne riesumato. Qualcuno voleva scoprire la verità.

Le operazioni di ritrovamento, però, non furono facili. Il proprietario del terreno, tale Joe Lewandowski, era a conoscenza dello smaltimento dei rifiuti di Atari ma non sapeva che per il grande pubblico fosse una leggenda metropolitana. Fino a quando Discovery Channel non lo contattò per poter girare un documentario sull’impresa. Tuttavia, sorgono due problemi: ottenere i permessi per poter scavare e trovare i fondi per finanziare l’operazione. Se per i permessi la trafila fu lunga e travagliata a causa dell’opposizione di ambientalisti e politici, il secondo problema fu risolto in breve tempo grazie alla Microsoft che stava già preparando un documentario intitolato “Atari: Game Over”.

Così, Il 16 aprile 2014, grazie ad un team di Archeologi, sotto gli occhi di Warshaw e James Heller, il manager di Atari che si occupò della sepoltura, furono ritrovate 1300 cartucce delle 800.000 stimate che si pensava fossero sepolte nella discarica di Alamogordo. 

Finalmente il mistero è stato risolto e Atari può riposare in pace.

Il sole sorge a levante

Ritorniamo agli anni ‘80. In America, la profonda crisi decimò le aziende leader del settore: Mattel, Magnavox e Coleco chiusero la divisione atta alla produzione di videogiochi mentre Activision continuò a sopravvivere grazie alla produzione di titoli per PC.

Tuttavia, a 10.000 km di distanza, come un qualsiasi supereroe della Marvel, un’azienda riesce a fermare la rovinosa crisi del mercato videoludico: parliamo di Nintendo.

Come nasce la casa di Kyoto

La casa nipponica, al secolo Nintendo Koppai, è stata fondata da Fusajiro Yamauchi alla fine dell’800 per la produzione di carte da gioco. Per più di 60 anni si sono dedicati esclusivamente a questo settore stringendo persino accordi con The Walt Disney Company per creare delle carte con i personaggi della casa di animazione.

Dopo essere entrata ufficialmente in borsa, Nintendo decise di allargare i propri orizzonti creando una compagnia di taxi, una catena di hotel e di avventurarsi nel mondo dell’elettronica. Sebbene queste attività non abbiano avuto successo, Nintendo ha trovato la sua strada nel campo ludico grazie alla produzione di giocattoli e pistole ottiche. 

All’inizio degli anni ‘70 entra, finalmente, nel mercato dei videogiochi con il lancio di un simulatore di tiro al piattello chiamato “Laser Clay Shotting” e, l’anno successivo, produce una versione più piccola adatta alle sale giochi che proprio in quegli anni stavano prendendo piede. Proprio per questo, iniziarono a produrre una serie di cabinati incentrati sulla simulazione e che sfruttavano la tecnologia delle pistole ottiche. Tuttavia, il primo gioco arcade prodotto e rilasciato da Nintendo fu pubblicato nel 1978 sotto il nome di “Computer Othello”.

Nella seconda metà degli anni ‘70, dopo aver ottenuto i diritti di distribuzione della Magnavox Odyssey, Nintendo iniziò a capire il potenziale che risiedeva in quella piccola macchina; quindi, cominciò a lavorare sulla sua home console in collaborazione con la Mitsubishi Electric e nel 1977 venne lanciata sul mercato la Color TV Game 6, la prima console casalinga Nintendo che conteneva 6 varianti del celebre PONG di Atari. 

Sempre durante quell’anno entrò nel team di sviluppo una personalità a noi nota: un giovanissimo Shigeru Miyamoto, il papà di Super Mario.

Nintendo iniziò ad affermarsi nel campo dei videogiochi approdando, negli anni ‘80, anche nel mercato statunitense. In quel periodo lanciarono le prime console portatili, i Game & Watch, e nelle sale giochi uscì Donkey Kong, il precursore di Super Mario Bros.

Il NES – terza generazione delle console

Nel 1983 è stata lanciata sul mercato nipponico la console che ha salvato l’industria videoludica: il Famicom.

L'estetica era diversa dalle altre console presenti sul mercato: un rettangolo bianco e rosso con due controller saldati, particolarmente innovativi perché il movimento del personaggio non avveniva tramite il solito stick, ma tramite il d-pad, simile a quello dei Game & Watch.

Queste scelte di design non erano casuali, bensì erano il risultato di una precisa strategia di marketing. Yamauchi, all'epoca presidente di Nintendo, voleva indirizzare il Famicom verso un pubblico più giovane, discostandosi dalla tendenza dell'epoca che vedeva i videogiochi come un passatempo per adulti. Il suo obiettivo era quello di far sembrare la console più un giocattolo che un computer, tanto che rifiutò l'idea di utilizzare una tastiera come controller.

Questa scelta si rivelò vincente, poiché la console riuscì a vendere più di 500.000 unità in soli due mesi, superando le vendite dell’Atari 2600 e della prima console di SEGA, la SG-1000. Nel 1984, si affermò come la console più venduta in tutto il Giappone.

Per conquistare il mercato americano, molto diverso da quello giapponese, Nintendo dovette eseguire una massiccia operazione di rebranding. Tuttavia, questo nuovo design comportò costi di produzione più alti, costringendo l’azienda ad alzare il prezzo. Mentre il Famicom aveva un costo di 14.800 yen (65$ nel 1983 e quasi 200 dollari oggi), il Nintendo Entertainment System (NES), nome ufficiale scelto per la commercializzazione in America e in Europa, veniva venduto per 250$, quasi 720$ oggi.

Nonostante il prezzo elevato, il NES divenne la console più venduta del periodo, aprendo la terza generazione delle console, insieme al SEGA Master System.

Come mai ebbe così tanto successo la console targata Nintendo?

Oltre ai miglioramenti grafici rispetto alle console passate, quello che conquistò il pubblico, e che permise di fidelizzarlo fino ai giorni nostri, fu la capacità di produrre dei giochi che fossero in grado di immergere il giocatore all'interno dell'ambiente di gioco, creando dei personaggi e delle storie memorabili. Infatti, è proprio sulla console ad 8 bit che nascono Super Mario e Zelda, due franchise che si sono evoluti nel corso del tempo e tutt’ora si trovano sulle nostre console. Inoltre, Nintendo imparò dagli errori commessi in passato da Atari e introdusse delle politiche sul controllo della qualità dei titoli che venivano sviluppati per la sua console.

Questa mossa, però, a qualcuno non piacque.

Le politiche Nintendo e l’inizio della rivalità

Nel mercato nipponico, per contrastare il dominio del Famicom, arrivò una nuova console, il SEGA Master System, la seconda più importante della terza generazione. Nonostante avesse ottenuto molto successo in Europa e in America Latina, non fu mai in grado di fermare l'impero dell'idraulico baffone in America a causa delle misure di controllo attuate da Nintendo.

Vi ricordate uno dei motivi che portarono alla crisi del 1983? La scarsa qualità dei giochi prodotti. Nintendo non voleva che la sua console di punta fosse associata a titoli di scarsa qualità; quindi, permise agli sviluppatori esterni di pubblicare solo cinque giochi all'anno, con la possibilità di pubblicarne uno in più se le vendite andavano bene. Inoltre, gli sviluppatori erano obbligati ad acquistare le cartucce vergini da Nintendo, senza la possibilità di restituirle. In questo modo, gli sviluppatori esterni si sarebbero assunti l'intera responsabilità del progetto, nel caso fosse stato di pessima qualità. Tuttavia, gli sviluppatori dovettero sottostare anche ad un'altra clausola: Nintendo avrebbe posseduto l'esclusiva del titolo per due anni, impedendo la pubblicazione su altre console concorrenti.

È per questo motivo che il Master System non riuscì a contrastare il NES: il suo parco giochi era estremamente limitato, poiché tutti volevano pubblicare prima sulla console del momento, quella Nintendo.

Se nelle fonti da me consultate, la rivalità tra SEGA e Nintendo parte dalla quarta generazione con il Mega Drive e il Super Nintendo, a mio parere è da questo momento che le due case giapponesi iniziano a scontrarsi e a contendersi il mercato. Infatti, SEGA portò Nintendo in tribunale, accusandola di aver creato un monopolio e di non permettere agli sviluppatori di pubblicare su altre piattaforme. Nintendo perse la causa poiché non rispettò le norme antitrust.

Da questo momento in poi, entrambe le aziende avrebbero fatto qualsiasi cosa per surclassare l'altra dando vita alla prima vera e propria faida nel mondo videoludico.

E il resto è storia.

Sitografia

https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dei_videogiochi
https://interestingengineering.com/culture/the-evolution-of-video-game-console-from-atari-to-playstation-5
https://www.bbc.com/culture/article/20231213-in-history-the-first-ever-video-game-console-50-years-on
https://hackernoon.com/the-video-game-crash-of-1983-how-nintendo-saved-the-industry
https://www.wired.it/article/videogiochi-ralph-baer-inventore-console/
https://www.betson.com/the-history-of-arcade-games/
https://pressblog.uchicago.edu/2019/07/24/what-atari-and-the-worst-video-game-of-all-time-can-teach-us-about-the-crisis-in-american-public-service.html

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